Agora. Ma la religione non è storia di violenza

di Vito Mancuso

 

 

 

E' inevitabile affermare che l' omicidio di Ipazia rimarrà sempre una macchia indelebile sul cristianesimo e la sua storia. Ma il cristianesimo non è riducibile agli assassini di Ipazia e al loro violento fanatismo.

L' assassinio di Ipazia si affianca a quelli già riconosciuti come tali da Giovanni Paolo II (in particolare il caso Galileo, la tratta degli schiavi, i crimini dell' Inquisizione) e a quelli non ancora riconosciuti pubblicamente, tra cui lo sterminio dei catari, l' assassinio di Ian Hus (6 luglio 1415) e di Giordano Bruno (17 febbraio 1600), esempi eclatanti di una generale persecuzione violenta dei dissidenti bollati come eretici o scismatici.

È infatti importante notare che il più delle volte i crimini di cui si è macchiato il cristianesimo sono avvenuti per motivi dottrinali. Ne viene che la formulazione della dottrina cattolica, quella ancora oggi depositata nel Catechismo firmato da Giovanni Paolo II nel 1992 e da Benedetto XVI nel 2005 in forma compendiata, non sarebbe tale senza quella violenza.

Per una religione che fa della sacralità della vita umana da tutelare fino al livello embrionale un principio "non negoziabile", non è certo un problema da poco. Per risolverlo è necessario non solo chiedere pubblicamente perdono a Dio e agli uomini dei crimini commessi, ma anche rivedere profondamente il metodo dell' elaborazione dottrinale, ancora oggi basato sulla repressione del dissenso e della criticità all' interno della teologia.

Sul secondo aspetto spero che nessuno possa pensare che il cristianesimo si riduca a san Cirillo d' Alessandria e ai suoi parabolani. Anzitutto perché lo stesso fondatore del cristianesimo è parte di quella schiera di scomodi testimoni della verità che, come Ipazia, vennero tolti di mezzo dai potenti di turno e dai fanatici al loro servizio.

Poi perché già la vicenda di Ipazia presenta un modo di essere cristiano di ben altro livello rispetto a Cirillo e ai parabolani, vale a dire Sinesio di Cirene. A suo riguardo però non posso fare a meno di criticare il film di Amenábar. Non si tratta tanto del fatto che il vero Sinesio, a differenza del protagonista del film dai bei capelli fluenti, fosse calvo (come si viene a sapere dallo scritto di Sinesio intitolato Encomio della calvizie ).

Immagino che il regista abbia avuto precise esigenze di immagine che l' hanno indotto a far crescere i capelli a Sinesio. Non si tratta neppure del fatto che il vero Sinesio, prima di essere vescovo e benché fosse vescovo, era sposato e padre di tre figli: anche qui le medesime esigenze di comunicazione hanno portato a semplificare questa interessante dimensione biografica, che pure sarebbe stato molto utile far conoscere allo spettatore.

La mia critica non si rivolge neppure al fatto che Sinesio non poteva essere ad Alessandria al tempo dell' uccisione di Ipazia, perché questa avvenne nel 415 mentre Sinesio era morto due anni prima, nel 413.

La mia critica si rivolge piuttosto a come Amenábar utilizza tali inesattezze e anacronismi (dico anacronismi al plurale perché anche l' accusa di stregoneria a Ipazia lo è: la persecuzione per stregoneria da parte della Chiesa fu molto posteriore e raggiunse il suo acme 10 secoli dopo).

Mi riferisco, invece, alla scena che segue il rifiuto da parte del prefetto Oreste di inginocchiarsi davanti a Cirillo che regge una Bibbia. Da quanto ci è dato conoscere leggendo le 156 lettere dell' epistolario, il vero Sinesio non avrebbe mai compiuto un gesto del genere. Era uno spirito tollerante, talora dubbioso, sempre filosofico, mai dogmatico. Lo si vede bene in una lettera indirizzata al fratello nel 410 in cui scrive: «Non mi stancherò mai di ripetere che il saggio non deve forzare le opinioni degli altri, né lasciarsi forzare nelle proprie».

Il vero Sinesio è uno che non vuole "forzare le opinioni degli altri", e quindi la scena che lo ritrae mentre fa inginocchiare Oreste costituisce una forzatura, una distorsione bell' e buona. Mi chiedo a quale scopo.

Forse il regista vuole far intendere che tutti i credenti contengono in se stessi un' inevitabile violenta intolleranza? A prescindere dall' intenzione di Amenábar, la tesi secondo cui nel cuore della religione sia radicata la violenza è falsa. È la stessa storia del cristianesimo ad Alessandria ad attestarlo, una storia ben lungi dall' essere ridotta a quella massa di fondamentalisti semianalfabeti quali nel film vengono presentati i cristiani.

Ben prima di Cirillo, Alessandria era stata la patria di una celebre scuola teologica di alta cultura e di raffinata spiritualità, rappresentante di quel cristianesimo pacifico, amico della ragione, della scienza e della filosofia, che lungo la storia annovera nomi come Scoto Eriugena, Pico della Mirandola, Erasmo da Rotterdam, Antonio Rosmini, Teilhard de Chardin e moltissimi altri, tra cui ai nostri giorni, Carlo Maria Martini e Gianfranco Ravasi.

Forse sbaglio a sostenere che il film voglia dare l' impressione che le religioni sono foriere di intolleranza e violenza, mentre solo la scienza e la filosofia aprono alla tolleranza e alla pace. Si tratta, lo ripeto, di una tesi falsa, ampiamente smentita dalla storia del 900. Sarebbero molti gli esempi al riguardo, qui mi limito a una figura che si potrebbe definire un' Ipazia del XX secolo.

Mi riferisco a Pavel Florenskij, matematico e scienziato russo, e insieme filosofo, storico dell' arte, teologo e sacerdote ortodosso, il quale, dopo anni di prigionia nei gulag staliniani, venne ucciso l' 8 dicembre 1937 per le sole idee che professava. Ipazia, filosofa e matematica, ad Alessandria nel 415; Florenskij, teologo e matematico, a Leningrado nel 1937: la prima uccisa dall' intolleranza dogmatica della religione, il secondo ucciso dall' intolleranza dogmatica dell' antireligione.

C' è qualche sostanziale differenza? Norberto Bobbio disse che «la vera differenza non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa». Se il film di Amenábar avesse lasciato intravedere anche questa sottile dialettica, sarebbe stato più vero.

 

Repubblica - 20 aprile 2010